sabato 16 dicembre 2017

DARK: La domanda non è dove. Ma quando.


Titolo
originale: Dark
Paese: Germania
Anno: 2017 – in produzione
Formato: serie TV
Genere: drammatico, thriller
Stagioni: 1
Episodi: 10
Durata media episodio: 43-55 min
Lingua originale: tedesco
Ideatore: Baran bo Odar, Jantje Friese
Regia: Baran bo Odar
Sceneggiatura: Baran bo Odar, Jantje Friese, Martin Behnke, Ronny Schalk, Marc O. Seng
Distributore: Netflix
Attori principali: Hofmann, Oliver Masucci, Jördis Triebel

La distinzione tra presente, passato e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente”. Einstein
"Non abbiamo scritto Dark pensando che dovesse piacere un pubblico internazionale, cercando di inserire cose di interesse per gli spettatori giapponesi o francesi e via dicendo. Abbiamo piuttosto cercato di raccontare qualcosa che avesse a che fare con la condizione umana e con domande universali e che pertanto fosse interessante per il pubblico internazionale. Forse anche per non porci il problema, ci siamo concentrati su un piccolo universo privato, sperando che avrebbe interessato il pubblico di tutto il mondo".  Jantje Friese



Partiamo da un presupposto: LA DOMANDA NON È DOVE. MA QUANDO.

E infatti, in Dark, il "dove" è abbastanza semplice: siamo a Winden, una piccola cittadina tedesca cupa e piovosa, oltre che minacciata da una grande centrale nucleare che sovrasta la foresta di abeti circostante.

Se passiamo a prendere in esame il "quando", invece, cominciano a sorgere un po' di problemi. Siamo nel 2019, ma siamo anche nel 1986 e nel 1953: tre dimensioni temporali differenti che, come in un gioco di prestigio, ogni trentatré anni si collegano.
Non c’è passato, presente e futuro, ma tutto il tempo è collegato come in un'enorme galleria scavata da un lombrico, un wormhole, anche meglio conosciuto come ponte di Einstein-Rosen.

Questa premessa dà origine a una trama intricata ma suggestiva, un intreccio labirintico fatto di strane scomparse di bambini che si ripetono nel tempo, un suicidio inspiegabile, misteri e oscuri segreti che quattro famiglie fortemente interconnesse si trascinano da tre generazioni.

Insomma, una serie articolata e complessa da binge-watching, da guardare necessariamente nel minor tempo possibile e con molta attenzione, altrimenti si corre il rischio di perdersi in uno spettacolo ipnotico che sta facendo discutere spettatori, filosofi e professori, in patria ma non solo.

Su questa prima serie Netflix prodotta in Germania, infatti, è stato detto di tutto e il contrario di tutto. A cominciare dalla somiglianza con Stranger Things (dovuta soprattutto al legame con gli anni 80), fino ad arrivare alla sua vicinanza alla struttura di scatole cinesi che caratterizza Lost, o al richiamo delle atmosfere oscure di Twin Peaks. Senza contare poi i molteplici riferimenti a opere che trattano i viaggi del tempo, Ritorno al futuro su tutti.




Una lavorazione durata 155 giorni, condensata in dieci episodi, inseriti nel catalogo Netflix a partire dal 1 Dicembre e nati dalla solida coppia creativa Baran Bo Odar e Jantjie Friese, rispettivamente regista e head writer della serie. Lui, classe 1978, premiato al Festival di Palm Screen come "regista da tenere d'occhio" per il suo primo film, The Silence, una cupissima storia di amicizia tra tre pedofili. Lei, sceneggiatrice poliedrica con un passato da attrice e produttrice.


Il tono di Dark, come già dice il nome, è ossessivamente cupo, con atmosfere create ad arte da una colonna parlante e accattivante in grado di dipingere attorno a Winden un’aura di autentico terrore e che ci aiuta ad altalenarci continuamente tra gli anni 80 e i giorni nostri grazie a un sapiente mix di pezzi indie/alternative con sprazzi di elettronica e di brani anni ’80, compreso il bizzarro riferimento al nostro Nino D'Angelo.

Molto bella è anche la sigla iniziale di Apparat che accompagna i titoli iniziali, tratta dall’album The Devil’s Walk (2011).



The Devil’s Walk 
Let’s go into bed Please put me to bed
And turn down the light
Fold out your hands
Give me a sign
Hold down your lies
Lay down next to me
Don’t listen when I scream
Bury your thoughts (doubts)
And fall asleep
Find out
I was just a bad dream
Let the bed sheet
Soak up my tears
And watch the only way out disappear
Don’t tell me why
Kiss me goodbye
For Neither ever, nor never
Goodbye
Neither ever, nor never
Goodbye
Neither ever, nor never
Goodbye
Goodbye

lunedì 18 settembre 2017

Dunkirk, la storia come non l'abbiamo mai vista. E mai sentita.




Titolo originale: Dunkirk
Genere: Azione
Regia: Christopher Nolan
Attori principali: Fionn Whitehead, Tom Glynn-Carney, Jack Lowden, Harry Styles, Aneurin Barnard
Durata: 106 minuti
Uscita: giovedì 31 agosto 2017



«Di tutti i film che ho fatto, è quello con la maggiore fusione tra musica, immagini e suoni», Christopher Nolan.
«Non c’è modo di battere il rumore delle bombe o delle onde, così ho dovuto scegliere un altro approccio. Per la maggior parte delle musiche, ho detto a chi le suonava di farlo sommessamente, ma con grande intensità», Hans Zimmer.

È' rumore, è Dunkirk, è l'ultimo film di Christopher Nolan.

Diciamolo pure che per quanto riguarda la trama non c'è molto da dire: siamo a Dunkerque, nel nord della Francia, a circa 70 chilometri di mare dal Regno Unito, all’inizio della seconda Guerra Mondiale, e quella che viene raccontato è l’episodio delle little ships, ovvero delle 3-400 barche e barchette che in una notte attraversarono quei sessanta chilometri di mare che separano le coste inglesi dalle spiagge di Dunkerque per riportare a casa centinaia di miglia di soldati inermi, assediati dall’esercito tedesco. Punto.

Anche i dialoghi sono ridotti all'osso, con una sceneggiatura di sole 76 pagine

In compenso parla Hans Zimmer, con la sua colonna sonora, con i rumori e gli effetti sonori circuenti e stordenti che danno il via a un nuovo capitolo nella cinematografia contemporanea.
Anche se, a ben vedere, dopo aver lavorato con il regista per altri 5 film, è lo stesso Zimmer a spiegare che in realtà «questa colonna sonora è di Chris Nolan. Questo film è la visione di un solo uomo. Questo film è quello in cui ho avuto il più stretto rapporto con un regista e nonostante lui non abbia mai suonato nemmeno una nota, ha in qualche modo suonato ogni nota».
E chapeau per Nolan allora, che pur non essendo un musicista ha concepito film e sceneggiatura con un "approccio musicale", dando vita ad una sorta di sinfonia sonoro-visiva claustrofobica e senza precedenti:

"C’è un’illusione acustica, se vogliamo chiamarla così, che si chiama “scala Shepard” e che avevo già usato in The Prestige con il compositore David Julyan. È un’illusione che fa credere che ci sia sempre un tono ascendente. È un effetto cavatappi. […] Ho scritto la sceneggiatura secondo questo principio, con tre linee temporali che danno una costante idea di intensità, di intensità crescente. Volevo costruire una musica con dei simili principi matematici", Christopher Nolan.

Quindi, è il tempo la chiave di Dunkirk.
Abbiamo tre differenti prospettive temporali, ciascuna delle quali viene scomposta, accorciata o dilatata per fluire in parallelo: una settimana nella vita dei soldati che aspettano sulla spiaggia di essere salvati; un giorno per l'attraversata di quel tratto di mare da parte di Mr. Dawson e figlio, che insieme a un amico prendono la loro barca per andare ad aiutare i soldati; un’ora di volo di Tom Hardy, prima che il carburante finisca definitivamente. E tre tre elementi della natura diversi, a rappresentare i vari stati emotivi - la spiaggia, come punto d'incontro tra speranza e disperazione, il mare, dove seppur non tutto è perduto, il pensiero della morte è sempre presente, e il cielo, che diventa un atto eroico spinto da assoluto altruismo. Come se non bastasse a queste stratificazioni si affiancano anche tre linee narrative diverse che nel montaggio si incastrano in vari modi, convergendo in un unico presente, pur raggiungendo i loro picchi in momenti differenti, in modo tale che la tensione in una delle tre parti è sempre assicurata.


E quel geniaccio di Nolan ha pensato di fare la stessa cosa con la colonna sonora. A partire dal rumore semplice quanto ossessivo del ticchettio del suo orologio da tasca, che Zimmer ha poi trasformato in uno snervante rumore di base e riproposto dall'inizio alla fine del film, seppur sintetizzato e modificato in vario modo. Che è poi il ticchettio dell'orologio dello Spitfire che il pilota Tom Hardy controlla più volte per calcolare mentalmente la benzina rimasta nel serbatoio.

Unendo il ticchettio alla tensione continua generata dall'incastro ad arte delle tre storie, Nolan e Zimmer hanno creato una colonna sonora che entrerà nella storia, basata, appunto, sulla scala Shepard.

E a sopperire al minimalismo dei dialoghi, accanto alla musica organica-industriale di Hans Zimmer, c'è il massimalismo delle immagini.
La cinepresa di Hoyte van Hoytema, il direttore della fotografia di Dunkirk, indugia ossessivamente, con primi e primissimi piani, sui volti dei soldati, sui loro sguardi, immortalandone l'istinto di sopravvivenza individuale che li muove.

Altra particolarità degna di nota. Il fim, che è stato pensato in esclusiva per il grande schermo e girato in parte con la tecnologia Imax, viene trasmesso in alcune sale anche in pellicola 70mm.

Quello a cui punta Nolan è proprio sfruttare a pieno tutta la potenza del mezzo cinematografico per ricreare l'esperienza più immersiva possibile: “Voglio farvi sentire come se foste là e l’unico modo di farlo è con la distribuzione nelle sale“. Questo è anche il motivo per cui ha scelto di schierarsi contro le piattaforme on demand, come Netflix, attaccando la loro politica di produzione e distribuzione, accompagnato da altri registi del calibro di Tarantino e Almodovar.

Insomma nulla viene lasciato al caso e ogni scelta, quella dei colori, dei movimenti, dei rumori, viene fatta con una precisione matematica. E il risultato è un'esperienza quasi fisica, che ti lascia seduto sulla sedia del tuo cinemino stanco, senza forze e a bocca aperta, con la sensazione di aver partecipato a qualcosa, qualcosa di grande, e di essere appena emersi da un bagno sensoriale in cui tutto passa per l'immagine e il suono. E cominci a capire quanto è assordante il silenzio.

lunedì 7 agosto 2017

Purity e il realismo isterico di Franzen


L’anima –disse a Pip –è una sensazione chimica. Quello che vedi sdraiato sul divano è un enzima nobilitato. Ogni enzima ha il suo lavoro da fare. Passa la vita a cercare la specifica molecola con cui è destinato a interagire. E un enzima può essere felice? Ha un’anima? Io rispondo sí a entrambe le domande! L’enzima che vedi qui sdraiato è stato creato per trovare la brutta scrittura, interagire con essa e migliorarla. Ecco cosa sono diventato, qui a galla nella mia cellula: un enzima correttore di brutta scrittura –. Poi aggiunse, con un cenno in direzione di Leila: –E lei ha paura che non sia felice.

Definito il nuovo capolavoro del Realismo Isterico, Purity, di Jonathan Franzen, è un romanzo “sinfonico” in cui all'improvviso ti ritrovi completamente immerso, circondato da tutti questi personaggi solo apparentemente slegati tra loro, ma che in realtà hanno tutti almeno una cosa in comune: a nessuno di loro piace come va il mondo. Lottano costantemente per cambiarlo e purificarlo, anche se poi sono i primi a sbagliare in continuazione, e a raccontare la propria verità, chi da giornalista, chi da scrittore e chi da artista.
Le loro vite vengono passate al setaccio e poi intrecciate tra loro. I pregi e i difetti, le abilità e le mancanze, i successi e i fallimenti: così, alla fine, arrivi a conoscere Pip e la sua cricca più di quanto tu conosca te stesso.

E partiamo proprio da Purity, ovvero Pip, per gli amici, la protagonista dal nome ingombrante che dà il titolo al libro.
23 anni, bella e intelligente, 130mila dollari di debito universitario e un solo, vero problema: Penelope, la madre single che l'ha cresciuta in una baracca nella Bay Area californiana, riservandole un amore esclusivo -nonchè occlusivo- e pieno di buchi.

"Nessuna telefonata era completa prima che ciascuna delle due avesse reso infelice l'altra. Il problema, agli occhi di Pip - l'essenza dello svantaggio che si portava dietro; la presumibile causa della sua incapacità di riuscire in qualunque cosa -, era che lei amava sua madre".

Per quanto riguarda il padre, invece, Pip non sa niente di lui e lui non sa neanche della sua esistenza.

A questo punto, nel tentativo di costruire una famiglia che nella realtà non è mai esistita, entrano in scena nuovi universi narrativi, apparentemente slegati tra loro. In primis Tom e Leila, la coppia di giornalisti d’assalto che farà da figura genitoriale a Pip, anche se più per trovare una compensazione a un loro trauma latente che per altro. O Annagret e Andreas Wolf, che le offriranno un lavoro per coinvolgerla nel loro sistema narcisistico. Una coppia sicuramente interessante: Wolf è un ibrido fittizio tra Assange e Snowden, un fuorilegge del web cresciuto nella Germania dell’Est e colpito da vari mandati di cattura internazionale, che guida in Bolivia il Sunlight project, una specie di Wikileaks che raggruppa giovani idealisti desiderosi di svelare tutto il marcio del pianeta e basato sul potere della parola che rivela i segreti. Pip proverà a seguirlo ovunque, accecata da un’irresistibile attrazione.
Ma anche in Purity, l’idolo della trasparenza non è sempre visto positivamente: quando tutto affiora alla luce del sole, quello che rimane della verità è un misero feticcio di se stessa, e così anche Wolf, ricorda per certi versi la doppiezza di Julian Assange in quanto ambiguo profeta della trasparenza altrui e dell’oscurità propria.

Un libro sulla purezza come utopia, resa inafferrabile dalla reale impossibilità di conciliare il desiderio di verità con il bisogno di preservare la propria privacy, una raccolta di nevrosi, depressioni, disadattamenti, per lo più generate da famiglie disfunzionali.

E un grande romanzo capace di trattare di temi politico-sociali e al tempo stesso di amore, di relazioni umane, di rovelli interiori, unendo con maestria quello che è nascosto nel profondo con ciò che invece galleggia in superficie.

Franzen, al suo quinto romanzo, partendo da una molla molto classica, quella della ricerca della verità, ci mostra un’America “alternativa”, un'America della protesta sociale popolata da squatter e da hackers, molto lontana da quella che immaginiamo quando pensiamo solitamente agli USA.

Ma Purity è anche un manuale di scrittura e Franzen è considerato il maggior scrittore americano vivente: un romanzo-fiume costituito da una trama polifonica divisa in sei parti e caratterizzata da un pluralismo di voci e di punti di vista, nonché da continui salti temporali.
Solo la prima e l’ultima parte sono raccontate dal punto di vista di Pip, mentre nelle altre sono Andreas, Leila, Tom e di nuovo Andreas a reggere le fila della trama, o direttamente in prima persona, come fa Tom, o con un punto di vista a focalizzazione interna, a dimostrare la padronanza della focalizzazione e il talento impressionante di Franzen nei dialoghi.

Un talento impressionante, una qualità di scrittura totalmente indiscutibile, di cui ho amato in primis la capacità di utilizzare certe semplici immagini in grado di rendere il suo mondo tridimensionale, come “Avevo in bocca il sapore metallico della spossatezza”, o ancora "La luce del sole è il miglior disinfettante".

Chiudo con un'ultima citazione che in qualche modo, leggendola e rileggendola centinaia di volte, ho fatto mia:
"Il nostro progetto comune era essere poveri, sconosciuti e puri fino al giorno in cui avremmo preso il mondo di sorpresa".

mercoledì 5 aprile 2017

ERASERHEAD – LA MENTE CHE CANCELLA (LYNCH, 1977)


 "Eraserhead si stava sviluppando in una certa direzione, e non avevo idea di cosa volesse dire. Cercavo la chiave d'accesso al significato di quelle sequenze. Qualcosa capivo ovviamente ma non sapevo quale fosse il cemento che teneva insieme tutto il film. Una bella fatica. Così tirai fuori la Bibbia e iniziai a leggerla. Un giorno lessi una frase. Chiusi la Bibbia: era fatta. Fine del discorso. Allora vidi il film come un tutt'uno. La frase completò questa visione al posto mio, al cento per cento. Penso che non rivelerò mai quale fosse quella frase." 
David Lynch, da In acque profonde. Meditazione e creatività

Titolo Originale: ERASERHEAD
Scritto da: DAVID LYNCH
Musiche: DAVID LYNCH, PETER IVERS, FATS WALLER
Montaggio: DAVID LYNCH
Fotografia: FREDERICK ELMES, HERBERT CARDWELL, DAVID LYNCH
Produzione: DAVID LYNCH
Durata: 90’
Anno: 1977

In trepida attesa del ritorno di Twin Peacks, ho rivisto e approfondito Eraserhead, il primo film di David Lynch, probabilmente la sua rappresentazione più avanguardistica a cui inizia a lavorare nel 1971, presso l'American Film Institute.

Un cult movie fuori dal tempo, con una gestazione difficile, visto che il budget a disposizione si esaurisce ben presto, rallentando la lavorazione e costringendo il regista a racimolare un po' di grana facendo la questua ad amici e parenti e consegnando giornali.

Girato in un sublime bianco e nero da tre operatori (Frederick Helmes, Herbert Cardwell e dallo stesso Lynch), quando uscì, dopo 4 anni di riprese ininterrotte e dopo una lunga battaglia per la sua poca commerciabilità e per il maniacale perfezionismo di Lynch, venne inizialmente distribuito neil circuito cinematografico dei midnight movie (spettacoli di mezzanotte) e sconsigliato alle madri incinte.

Diventò il film preferito di Stanley Kubrick, che affermò di averlo proiettato continuamente durante la lavorazione di Shining per trasmettere inquietudine agli attori.

E come potevamo io e Kubrick non amare alla follia il cinema di uno psichiatra mancato, che penetra le profondità dell'inconscio, alla ricerca della mente umana con continui richiami alla sua storia, ma anche rimandi pittorici, ad esempio Francis Bacon e Oskar Kokoschka, e all’avanguardia espressionista tedesca.

Un cinema onirico, senza un nesso logico, segnato da un'inquietudine allucinata, in cui la forza delle immagini sublima quella delle parole.

Al centro di tutto c'è la mente, la mente con i suoi ingannevoli labirinti, la mente di un padre figlicida che, tormentato dal senso di colpa, rimuove l'atto compiuto (da qui EraserHead - la mente che cancella) e, mentre assiste all'implosione dell'universo, si rifugia in un mondo immaginario alla ricerca di sollievo.

Henry Spencer ha messo incinta la propria ragazza, Mary X. Decide di portarla a vivere con lui, insieme al figlio, che in realtà è una creatura mostruosa, una specie di feto, sulla cui realizzazione Lynch non ha mai voluto rivelare nulla.

In un susseguirsi di visioni fatte di terra e sogni, il mondo si sgretola: il figlio piange ininterrottamente, Mary X scappa via e torna a casa dei suoi genitori, lasciando il bambino alle cure di Henry, che però finirà per ucciderlo, mettendo fine al proprio calvario e abbandonandosi all'oblio.

Un'improbabile sceneggiatura disegna uno sfondo in bianco e nero, innaturale, fatto di fumo e ruggine, ciminiere e palazzi, strane figure e volti cerulei. Un mondo disturbante dove i dialoghi, già ridotti all'osso, si fondono con un sound intriso di rumori meccanici, ronzii, sospiri e lamenti sopiti.

Accanto a loro, in tutto il film, c'è la colonna sonora, composta dal regista con l’aiuto di Peter Ivers, una musica che arriva da lontano, da altre stanze di cui intuiamo l'esistenza.

E intanto, su un palco decadente la Lady Radiator canta una canzone: "in heaven everything is fine".


domenica 5 febbraio 2017

Penny Dreadful e l’inquietante Londra di John Logan





Titolo: Penny Dreadful
Paese: Stati Uniti d'America, Regno Unito
Anno: 2014 - 2016
Formato: serie TV
Genere: horror, fantastico, drammatico
Stagioni: 3
Episodi: 27

CREDITS
Ideatore: John Logan
Attori principali: Reeve Carney, Timothy Dalton: Sir Malcolm Murray, Eva Green, Rory Kinnear, Billie Piper: Brona Croft/Lily Frankenstein, Josh Hartnett.
Casa di produzione: Neal Street Productions, Desert Wolf Productions, Showtime, Sky Atlantic



Ci sono incappata per caso, in cerca di qualcosa di coinvolgente da guardare su Netflix e già la prima puntata mi ha convinto che avevo trovato qualcosa di molto interessante.
Il tratto da fumetto d’autore, in primo luogo, senza contare la collezione di leit motiv del tardo romanticismo sfoggiata: folgori, magnetismo, cerimonie esoteriche, cimiteri, radure spettrali, sangue vermiglio e chi più ne ha più ne metta.
Sono andata ancora un po' avanti e non sono più riuscita a smettere di guardarla.

Sto parlando di Penny Dreadful, la serie tv dark e disturbante prodotta da Sam Mendes e creata e interamente scritta da John Logan attraverso un’operazione di concentrazione, variazione e contaminazione dell'inesauribile giacimento di immaginario tratto dalle storie classiche dell’orrore.

Ed è proprio dai grandi autori dell'incubo della letteratura inglese di fine ottocento - come William Shakespeare, Oscar Wilde, William Wordsworth, Lord Byron, Percy Bysshe Shelley e John Keats - che sono stati tratti e reinterpretati i celebri ‘mostri’ protagonisti di Penny Dreadful: dall'iconico Dottor Victor Frankenstein al diabolico e immortale Dorian Gray, da Dracula a Dr. Jekyll, catapultati tra licantropi, streghe e vampiri.

Il risultato? Un horror psicologico-fantasy ambientato nella Londra Vittoriana e ispirato alla graphic novel La Lega degli Straordinari Gentlemen di Alan Moore che ha rinnovato il genere televisivo fondendolo con i racconti popolari del romanzo gotico e con il cinema inglese.

Senza contare che lo stesso nome "Penny Dreadful" richiama le omonime pubblicazioni a tinte horror indirizzate al proletariato del Regno Unito dell’Ottocento, i cosiddetti “spaventi da un penny”, tra i quali troviamo anche la storia del barbiere Sweeney Todd, proprio quello dell'omonimo film di Tim Burton.

Erano romanzi di genere venduti in fascicoli settimanali di circa 16 pagine che, per mezzo di illustrazioni grossolane e toni enfatici, raccontavano storie di investigatori, criminali ed esseri soprannaturali. I loro autori lavoravano su più storie contemporaneamente, usando le stesse tecniche narrative delle serie tv di oggi per creare suspense e mantenere viva l’attenzione: anticipazioni, flashback e cliffhanger.
Non erano ben visti dal popolo ed erano in molti a ritenere che i penny dreadful avessero un’influenza negativa sui ragazzi e di essere stati fonte di ispirazione di diversi suicidi e omicidi avvenuti all'epoca da parte di giovani ragazzi.

Insomma, molto interessante, così come molto interessante è il personaggio interpretato da Eva Green, la diabolica Vanessa Ives, che con la sua sola presenza magnetica è in grado di terrorizzare tutti, senza bisogno di grandi effetti speciali o make-up d’effetto. Un'interpretazione molto impegnativa sia fisicamente che psicologicamente, che, secondo il direttore di Showtime David Nevins "passerà nella storia della televisione come una delle più belle interpretazioni... Credo che quei sei mesi all'anno in cui ha interpretato Vanessa le abbiano richiesto molti sforzi. Ha vissuto nel personaggio. Era perseguitata da diavolo, e non è un bel modo per vivere".


Altra chicca è la malinconica colonna sonora composta da Abel Korzeniowski, il compositore di A Single Man e W. E., per lo più utilizzando semplicemente violino e pianoforte, una soundtrack perfettamente in grado di riflettere la potenza emotiva e la poeticità delle immagini.

La pecca invece? Che, dopo tre stagioni la serie sia già finita.
A porre parziale rimedio ci penserà però la Titan Comics, che continuerà a seguire le vicende di queste malinconiche creature del male in un sequel a fumetti, illustrato da Jesús Hervás e intitolato Penny Dreadful: The Awakening.
Dovremo aspettare ancora un po' però: Il primo volume di Penny Dreadful: The Awakening uscirà il prossimo ‪5 Aprile‬.



lunedì 9 gennaio 2017

Paterson: tra poetica del quotidiano e quotidianità della poesia


Titolo originale: Paterson
Regia: Jim Jarmusch
Attori principali: Adam Driver, Golshifteh Farahani, Kara Hayward, Sterling Jerins, Jared Gilman
Genere: Drammatico, poetico
Durata 113 min



Una coppia di Paterson, New Jersey
Amore sussurrato
Il cane Marvin
Un poeta alla guida di un bus che ascolta il cuore della sua città
Coincidenze e rimandi

Il mondo visto da un autobus
Il trascorrerete lento delle giornate
Apoteosi della routine e poesia del quotidiano
L'ironia della parola
La ripetizione di un canone preciso

Un uomo che ripete se stesso
Consuetudini mortifere e stantie
Ambizioni sopite e voglia di cambiamenti
Un taccuino da portare sempre con sé e una birra che aspetta nel pub dell'isolato
Una passione per William Carlos Williams, Ginsberg, O'Hara

Il dono di uno sguardo poetico che ha il potere di cambiare ogni cosa
Senso e non-senso dell’esistenza
Poesia come sostanza
Colori delicati
Poetica del quotidiano o quotidianità della poesia?

"PELLE" di Erica Zanin

"PELLE" di Erica Zanin
Un romanzo in vendita su www.ilmiolibro.it

"PELLE", il mio primo romanzo che consiglio a tutti!

Siamo nella Milano dei giorni nostri, in quella zona periferica che da Greco conduce a Sesto San Giovanni. In un autobus dell'ATM, un autista, ormai stanco del suo lavoro, deve affrontare una baby gang che spaventa i suoi passeggeri. Si chiama Bruno ed è uno dei tanti laureati insoddisfatti costretti a fare un lavoro diverso da quello da cui ambivano: voleva fare il giornalista e invece guida l'autobus nella periferia di Milano. Ma non gli dispiace e non si lamenta. E' contento lo stesso: è il re del suo autobus e i suoi passeggeri sono solo spunti interessanti per i racconti che scrive. Li osserva dallo specchietto retrovisore, giorno dopo giorno, li vede invecchiare, li vede quando sono appena svegli e quando tornano dal lavoro stanchi morti, e passa il tempo ad immaginarsi la loro vita. Finché nella sua vita irrompe Margherita, con la sua vita sregolata, con i suoi problemi di memoria, con i suoi segreti. E tutto cambia. Fuori e dentro di lui.