martedì 4 ottobre 2016

Nick Cave, One More Time With Feeling

"Qualcuno deve cantare le stelle, qualcuno deve cantare la pioggia, qualcuno deve cantare il dolore, qualcuno deve cantare il sangue". Nick Cave


Quest'anno sul grande schermo di Venezia 73 c'era anche lui, Nick Cave, uno dei miei più grandi miti viventi, in qualità di assoluto protagonista di One More Time With Feeling, un tributo live diventato prima un'intervista, poi un documentario e poi qualcosa più vicino a un film in 3D.

Un documentario musicale di Andrew Dominik (il regista di L’assassinio di Jesse James, Cogan e Killing Them Softly), che, con la scusa di raccontare come è nato Skeleton Tree, l'ultimo album di Nick Cave and The Bad Seeds, tira fuori da Nick tutta la sofferenza e il nonsenso seguiti alla tragica scomparsa di uno dei figli gemelli dell'artista, Arthur, avvenuta nell'estate del 2015, proprio a metà registrazione di Skeleton Tree.

Ma giustificare e dare un senso alla morte di un figlio quindicenne, precipitato da un'alta scogliera presso Brighton dopo essersi sporto troppo, richiede tempo e coraggio, occupa le giornate, la mente, pervade ogni attività, ogni singolo minuscolo frammento di tempo.
Per questo, quello che inizialmente era stato pensato come un tributo ai The Bad Seeds e al loro nuovo album si è trasformato necessariamente in una personale discesa nell'oscurità che ha commosso Venezia. E anche me. Sarà per il bianco e nero e il 3D rivelatore o più semplicemente sarà per le parole, i pensieri e le canzoni di Nick Cave.
Un Cave che, più che come profeta contemporaneo, in One More Time With Feeling viene rappresentato come un padre, un padre che sta elaborando il lutto dopo aver perso il proprio figlio.

Eppure,  nel lungometraggio queste considerazioni fanno da sfondo alla nascita del nuovo album, un album dai testi cupi e profetici, perché, d'altro canto, "qualcuno deve cantare le stelle, qualcuno deve cantare la pioggia, qualcuno deve cantare il dolore, qualcuno deve cantare il sangue" e Cave non è solo un padre, ma anche un artista con un rapporto tra trauma e creazione da risolvere.

Un film-performance raffinato, dallo stile fotografico, girato in bianco e nero, a colori e in 3D, che, tra performance live delle nuove canzoni e interviste e riprese di Dominik, riflette bene l'intimità e l'austerità di una delle icone rock del pianeta.

Certo, il risultato è molto diverso dal capolavoro di due anni fa, 20.000 giorni sulla terra di Iain Forsyth e Jane Pollard, ma il progetto registico di Andrew Dominik merita comunque un applauso, non fosse altro per la riverenza e il tatto con cui il regista approccia l'ex fidanzato di sua moglie.

E un applauso a Nexo Digital, che sta portando nelle sale Italiane molti bei film/documentari che vale davvero la pena vedere. Stay tuned!

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Siamo nella Milano dei giorni nostri, in quella zona periferica che da Greco conduce a Sesto San Giovanni. In un autobus dell'ATM, un autista, ormai stanco del suo lavoro, deve affrontare una baby gang che spaventa i suoi passeggeri. Si chiama Bruno ed è uno dei tanti laureati insoddisfatti costretti a fare un lavoro diverso da quello da cui ambivano: voleva fare il giornalista e invece guida l'autobus nella periferia di Milano. Ma non gli dispiace e non si lamenta. E' contento lo stesso: è il re del suo autobus e i suoi passeggeri sono solo spunti interessanti per i racconti che scrive. Li osserva dallo specchietto retrovisore, giorno dopo giorno, li vede invecchiare, li vede quando sono appena svegli e quando tornano dal lavoro stanchi morti, e passa il tempo ad immaginarsi la loro vita. Finché nella sua vita irrompe Margherita, con la sua vita sregolata, con i suoi problemi di memoria, con i suoi segreti. E tutto cambia. Fuori e dentro di lui.