UN BLOG PER TORNARE AD ESSERE NUDI, PER RISCOPRIRSI VIVI. UN BLOG PER ANIME BARCOLLANTI CHE USANO PAROLE PER SORREGGERSI E SUONI PER DIFENDERSI.
giovedì 16 giugno 2016
Truth e la riscoperta del cinema d’inchiesta
Titolo: Truth – Il prezzo della verità
Regia: James Vanderbilt
Genere: cinema d'inchiesta
Sceneggiatura: James Vanderbilt
Fotografia: Mandy Walker
Musica: Brian Tyler
Interpreti: Robert Redford, Cate Blanchett, Topher Grace, Dennis Quaid, Elizabeth Moss
Paese: Usa, 2015
Durata: 121 minuti
In una serata estiva una passeggiatina dopocena con gelato incluso non fa mai male. Se poi passi davanti al cinema e vedi che c'è un film interessante ancora meglio. Se poi il film interessante non è ancora iniziato ma è lì lì per cominciare allora sei proprio fortunato!
È' stato così, per caso, che ho conosciuto James Vanderbilt, già sceneggiatore di Zodiac e The Amazing Spiderman, al suo esordio alla regia con il film Truth – Il prezzo della verità.
Si tratta di una pellicola sul e di giornalismo d'inchiesta, che, riprendendo un filone recentemente riscoperto da Hollywood sulla scia de Il caso Spotlight, racconta con dinamismo il primo fallimento del giornalismo degli anni 2000. Una storia vera quindi, tratta dall’auto-biografia Truth and Duty: The Press, the President, and the Privilege of Power della (ex) giornalista della CBS Mary Mapes, premio Peabody per l’inchiesta sulle torture dell’esercito statunitense inflitte ai prigionieri ad Abu Ghrai, Iraq.
Siamo nel 2005 e Mary Mapes (Cate Blanchett), giornalista e produttrice televisiva della trasmissione 60 Minutes della CBS, che già vantava servizi giornalistici di enorme rilievo, manda in onda lo scoop portato alla luce dal suo team di lavoro sul caso noto come Rathergate, secondo cui l'ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush (allora in campagna elettorale contro John Kerry) avrebbe disertato il suo incarico da pilota nella Guardia Nazionale Aerea durante la guerra nel Vietnam. La notizia viene però subito messa in discussione sulla base di piccoli cavilli ingigantiti appositamente per smentire l'attendibiltà delle fonti e la veridicità dei documenti portati a testimonianza e affossare così il tema centrale della notizia riportata.
Vanderbilt costruisce la storia in crescendo, seguendo, passo dopo passo, gli sviluppi e le scoperte del team di giornalisti, fino al licenziamento della Mape, che, pur rivelandosi una giornalista forte e combattiva, disposta alle sfide più feroci pur di difendere la sua causa, non può fare niente contro le decisioni che vengono dall'alto. La stessa sorte tocca al suo stesso gruppo di lavoro, affiatato ma variegato di personalità, mentre l’anchor man Dan Rather (Robert Redford) presenterà le proprie dimissioni.
E dietro tutti questi eventi narrati emerge, in modo neanche troppo celato, l'interessante rapporto tra politica e giornalismo: il potere della stampa e la consapevolezza che la forza mediatica può possedere la forza distruttrice di un ordigno.
Una regia molto essenziale, di fattura televisiva (che in questo caso ci può anche stare visto che il tema affrontato riguarda proprio tv e media), per un film affascinante, in grado di coinvolgere e lasciare col fiato sospeso, anche grazie al contributo della Blanchett: ogni emozione passa per l'intensità espressiva del suo volto e per la sua voce, soprattutto quando la Mapes si trova davanti alla commissione a rispondere del suo lavoro.
Ottimo anche Robert Redford che troviamo nel film in una versione invecchiata che non toglie niente alla classe e al carisma che rimangono ineguagliabili.
Ma il finale amaro della vicenda ha anche il merito di inquadrare un momento storico cruciale per la storia del giornalismo vissuto nel passaggio dai media tradizionali ai nuovi media digitali, quello della perdita dell’informazione, sia binaria che reale, sollevando Interrogativi sul mondo dell’informazione e su un approccio professionale che, ancora oggi, si scontra con un sistema di potere per il quale la verità non è mai univoca.
E allora, per dirla con le parole di Rather, “Coraggio!”.
domenica 12 giugno 2016
Che tu sia per me il coltello, quando la parola è tutto
Quando la parola si farà corpo
e il corpo aprirà la bocca
e pronuncerà la parola che l’ha creato,
abbraccerò questo corpo
e lo adagerò al mio fianco.
HEZI LESKLI, “Quinta lezione d’ebraico”
da I topi e Leah Goldberg
Titolo: Che tu sia per me il coltello
Autore: David Grossman
Traduzione: Alessandra Shomroni
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 1998
Pagine: 330
Editore: Mondadori – Oscar
"Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso“, da Lettere a Milena di Kafka
La scorsa settimana sono incappata in Che tu sia per me il coltello, il romanzo di David Grossman, lo scrittore israeliano da anni impegnato nella causa del pacifismo, dopo aver perso un figlio che prestava servizio militare di leva nel 2006 nel Libano meridionale.
Che tu sia per me il coltello è un'opera assolutamente originale per forme e linguaggi narrativi, tanto che viene considerato uno dei romanzi più sperimentali e difficili di Grossman, scritto nel 1998 ed è arrivato in Italia nel ’99 edito da Mondadori.
Un libro delicato e denso di particolari caldi, seducenti e veri e, al contempo, lento, anzi, lentissimo, nonché prolisso e noioso all'infinito, che ha generato in me sentimenti e reazioni contrastanti. Non nascondo infatti di aver provato una certa estraneità emotiva rispetto al racconto, un'estraneità dovuta alla dimensione "astratta" del libro, ma un'estraneità unita però a una connessione interna e intensa con i sentimenti di Yair e Myriam, i due protagonisti della storia.
Il loro è un rapporto esclusivamente epistolare e compresso dal punto di vista temporale in un determinato spazio, quello intercorso tra il giorno in cui Yair viene colpito dal tentativo di Myriam di isolarsi da una conversazione con un gruppetto di ex compagni di liceo e la fine della loro relazione epistolare, decisa da loro stessi per salvaguardare la purezza del rapporto.
E, infatti, l'intero libro è costituito da una serie di lettere con cui Yair e Myriam, entrambi sposati e entrambi con un figlio, rivelano reciprocamente loro stessi e le proprie vite tirando fuori la loro vera essenza: se per circa due terzi del libro scopriamo le loro storie solo attraverso la voce di Yair, la seconda parte è dedicata alle lettere che Myriam scrive quando Yair ha smesso di scriverle, coerentemente con quanto pattuito o in precedenza.
Pagina dopo pagina emergono cosi le personalità dei due protagonisti, Yair e Myriam e, sullo sfondo, sfumate, quelle dei loro cari, Maya e Yidò, Amos e Yochai (e Ana). E solo nelle ultimissime pagine tutta la tensione accumulata sembra venire rilasciata in maniera esplosiva, dapprima con il contatto telefonico e, in seguito, con l'incontro tra i due protagonisti.
Una storia dove sono i sentimenti a farla da padrone, perché nel rapporto instaurato tra i due non esiste vergogna, né pudore, né falsità, ma solo trasparenza, a volte dolorosa e tagliente, e profondità. Un libro dove non bisogna seguire una trama ma concentrarsi sulle parole e soffermarsi sull’importanza di ognuna di esse.
Perché un foglio di carta e una penna possono essere terapeutici e aiutare a capire molte cose.
"Myriam,
tu non mi conosci e, quando ti scrivo, sembra anche a me di non conoscermi. A dire il vero ho cercato di non scrivere, sono già due giorni che ci provo, ma adesso mi sono arreso.
Ti ho vista l’altro ieri al raduno del liceo. Tu non mi hai notato, stavo in disparte, forse non potevi vedermi. Qualcuno ha pronunciato il tuo nome e alcuni ragazzi ti hanno chiamato “professoressa”. Eri con un uomo alto, probabilmente tuo marito. È tutto quello che so di te, ed è forse già troppo. Non spaventarti, non voglio incontrarti e interferire nella tua vita. Vorrei piuttosto che tu accettassi di ricevere delle lettere da me."
Da Che tu sia per me il coltello, Grossman
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"PELLE", il mio primo romanzo che consiglio a tutti!
Siamo nella Milano dei giorni nostri, in quella zona periferica che da Greco conduce a Sesto San Giovanni. In un autobus dell'ATM, un autista, ormai stanco del suo lavoro, deve affrontare una baby gang che spaventa i suoi passeggeri. Si chiama Bruno ed è uno dei tanti laureati insoddisfatti costretti a fare un lavoro diverso da quello da cui ambivano: voleva fare il giornalista e invece guida l'autobus nella periferia di Milano. Ma non gli dispiace e non si lamenta. E' contento lo stesso: è il re del suo autobus e i suoi passeggeri sono solo spunti interessanti per i racconti che scrive. Li osserva dallo specchietto retrovisore, giorno dopo giorno, li vede invecchiare, li vede quando sono appena svegli e quando tornano dal lavoro stanchi morti, e passa il tempo ad immaginarsi la loro vita. Finché nella sua vita irrompe Margherita, con la sua vita sregolata, con i suoi problemi di memoria, con i suoi segreti. E tutto cambia. Fuori e dentro di lui.